Le pulsazioni del cuore di un tifoso disegnano percorsi simili alla planimetria di un tappone dolomitico, fatta di salite verso la Cima Coppi e ripide discese quasi a strapiombo, a seconda del mutare degli eventi sportivi a cui si assiste.
Se poi parliamo di calcio, la Cima Coppi è l’Everest e le discese sono verso la Fossa delle Marianne… e senza batiscafo!
España 82 è stata per noi tifosi un’esperienza al limite della catarsi con la peculiarità di essere passati dalla Fossa delle Marianne (la partitaccia col Pontedera) direttamente alla cima dell’Everest (l’urlo di Tardelli) in un solo mese. E senza passare dal via!
Non fu solo un mondiale di calcio, di bel calcio, per altro. Fu uno sconvolgimento emotivo che nemmeno il drammaturgo più geniale avrebbe mai potuto concepire. Fu una tempesta estiva! Figuriamoci poi per noi ragazzetti coi primi peli sotto al naso, carichi di ormoni come non ci fosse un domani e con un’entusiasmo parossistico verso tutto ciò che aveva una minigonna, fosse una ragazza o una F1.
Ma anche il pallone, quello a pentagoni, promessa di brividi, emozioni e puro godimento quasi sempre mantenuta.
Quel Mondiale non fu da meno.
Fu tempesta e fu calma.
Tempesta come le nubi oscure che la stampa e gran parte dei 59 milioni di Ct d’Italia disegnarono per futuro immediato di quella spedizione.
Tempesta come quel ragazzo, Paolo Rossi, faccia ancora inebetita da due anni di purgatorio dei quali probabilmente ancora non aveva delineato un profilo plausibile.
Tempesta come quell’incedere aprossimativo, quell’approccio timidamente orientato ad un riscatto apparentemente irraggiungibile.
Tempesta come certe parole urlate sulla carta stampata sbercianti sentenze e ogni sorta di contumelie. Quanto male gli fecero!
Tempesta come i tre lampi che squassarono il Brasile, illuminarono gli occhi degli sportivi e accelerarono le pulsazioni. E non eravamo nemmeno in cima.
Tempesta come quel tripudio finale a Madrid, per le strade delle nostre città, nei cuori di noi ragazzetti che in quei giorni non badammo più alle minigonne.
Ma in quella tempesta, tra parole, immagini, calci e sputi, nell’occhio di quel ciclone trovavi sempre la calma di un uomo, Gaetano Scirea, uno di quelli che entravano in campo senza l’urgenza di farsi notare, ma c’era sempre. Senza la necessità affilare le spade, ma che spazzava l’area perentoriamente, quasi chiedendo scusa.
Scirea era la calma.
La calma prima, dopo, ma soprattutto durante la tempesta.
La calma nel fare, che non significava “Arrivo dopo” ma “Arrivo a tempo debito”.
La calma nell’intervenire là, dove Gentile o Tardelli avevano terminato di piallare l’avversario e portarsi via la palla.
Con calma.
La calma di un futuro capitano con cui accompagnò quella coppa dalle sue mani a quelle di un compagno.
La calma con cui gioiva a fianco del suo grandissimo amico, fors’anche più calmo di lui, quel Dino Zoff al quale rimase legato sempre.
Tra tempesta e calma si dipanò una fetta di storia personale che ognuno di noi conserva gelosamente ed orgogliosamente. Si compì quella mutazione definitiva che trasformò il ricordo di un Mondiale nella memoria di un Evento irripetuto.
E, senza Rossi e Scirea, irripetibile.